martedì 5 gennaio 2010

La mostra di Silvano DOrsi al Cerp della Rocca Paolina

Non sembri "offesa", ma la mostra che ho visitato al Cerp della Provincia di Perugia - aperta fino al 10 gennaio - è sorprendente, davvero, perfino in senso etimologico, come dato che produce meraviglia, stupore, dunque sorpresa. Sarà la scarsa frequentazione nel suo atelier, o la distrazione sempre in agguato, ma Silvano D'Orsi, alla Rocca Paolina della Provincia di Perugia, ha prodotto un avvenimento di sicura presa, di qualità certificata come s'usa oggi dire. Curata con passione pari a competenza da Pino Bonanno, intellettuale emigrato qui da noi in quel di Paciano, che ha steso un testo critico articolato e acuto - il catalogo è aperto da una pregnante presentazione del presidente Marco Vinicio Guasticchi e dall'assessore alla cultura Donatella Porzi - la rassegna di opere recentissime (l'ultimo biennio) ma che assume via via la tonalità,la compostezza e la complessità dell'antologica, offre dell'artista un'immagine di maturità mentale, di evoluzione inaspettata, di felicità inventiva. Il titolo, pitagoricamente numerologico, è "Vent'1", che è cifra della perfezione avendo in sé il prodotto dei numeri sacri 3 e 7, ed è anche il vezzo di stupire con giochi di parole in questa che stiamo vivendo sempre più invasiva società dello spettacolo. La mostra, dunque, espone una sessantina di sculture e dipinti di un pittore e scultore di origini casertane - è nato nel 1953 a Gioia Sannitica -, dal 1972 in Umbria per studiare medicina e 'fulminato' sulla via di Deruta in una conversione a tutto tondo, forte di certo del diploma conseguito all'Istituto d'Arte di Cerreto Sannita. Sono oltre trenta anni che D'Orsi lavora la ceramica nel suo atelier derutese, sempre bilicato tra artigianato alto e artisticità compiuta, e sempre attento ai nuovi linguaggi, e dando il meglio di sé, più che nella pittura, dove si coagulano, peraltro legittimi, echi di Lam, di Campigli, di Matta, in miscele gradevoli e sensate ma non prive di suggestioni scontate.
Dove, invece, è viva e vivace la novità, la s'incontra nelle sculture-figura, soprattutto quando le giacche e i pantaloni, bianchi smaltati, indumenti vuoti che raffigurano la crisi della società contemporanea, si allineano come truppe di eserciti senza corpo e senza anima, involucri di solitudine e di noinsense. Non ci sono teste, per l'artista, non ci sono cuori, ma macchine inutili alla Munari, divertissement innocui, armi spuntate, ghirigori fragili come la realtà che trascende nel virtuale, dove tutto ciò che irreale è irrazionale e tutto ciò che è irrazionale è irreale. E così, in un gioco nel quale mette in gioco se stesso, sopravvive, in D'Orsi, quasi la voluttà surrealista di gabbare il reale, il pratico, il sociale, il politico, in una sorta di splendida catarsi fatta di ironie sottili e di sarcasmi feroci.
Sì, le macchinazioni inventive secondo me più originali e blasfeme di Silvano D'Orsi sono la serie di "Urna del tempo", panciuti orci neri o bruni chiomati di stringhe a mo' di manici improbabili e le caffettiere moka giganti, in terracotta o meglio in biscotto, creature metafisiche che rammentano, ed è un punto d'eccellenza, De Chirico, Savinio e Morandi. "Testimoni dell'attesa" le ha battezzate l'autore, forse per l'amore napoletano verso la tazzulella 'e cafè. Era meglio non esporre "Odalische metafisiche" e "Ritmo e passione", ma qui entriamo nel territorio impervio non dico del giusto, ma in quello dell'autonomia. Ma questo qui, come si permette? é forse custode del gusto?
Antonio Carlo Ponti
Corriere dell'Umbria Domenica 3 Gennaio 2010

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