giovedì 26 agosto 2010

Bische addio, c’è il videopoker

Prima fu la zecchinetta, così chiamata (a Perugia "zecchinetto") perché portata, pare dai Lanzichenecchi. Poi la Concincina, nome legato ad una zona del Vietnam.
"La portarono gli alleati entrando in città" - racconta il signor Franco, che precisa: "Per l‘esattezza fu un interprete di Bologna al seguito degli inglesi che lanciò questo gioco che ebbe immediatamente presa..."
Il gioco d‘azzardo a Perugia sembra entrare nel Dna della sua gente. Qualcuno sostiene che erano i soldati delle milizie dei capitani di ventura - numerosissimi e coraggiosissimi stando alle cronache - che nei periodi in cui non si battevano per questo o per quel signorotto, per quel comune o per quella tirannia o signoria che dir si voglia, dilapidavano i guadagni della condotta (e dei saccheggi) ai dadi e alle carte. Oggi Perugia non è più la terra dei biscazzieri. Pare sia rimasta solo una casa da gioco in città, in zona stazione. Pochi avventori, serate magre e tristi.
"Oggi il gioco si è spostato nei bar. Le macchinette dei videopoker, ma anche i computer, hanno "succhiato" gli avventori delle bische clandestine"
- assicura un investigatore. Eppure ci fu un tempo - che per la verità pochi rimpiangono - in cui il capoluogo umbro, e in misura minore anche Foligno, Spoleto, Gubbio, Bevagna, Trevi, Magione - avevano le loro case da gioco.
"Era appena finita la guerra. Per passare il tempo - racconta il sor Mario - c‘erano solo il cinematografo e il ballo. Nel 1958 chiusero anche le case di tolleranza. E allora...."
Allora si accorreva nelle bische. Vocianti e fumose, almeno fino a quando il gioco non si faceva duro, pesante e tutti rimanevano in silenzio a vedere chi avrebbe vinto, chi avrebbe perso. Magari rovinandosi completamente. Puntando la vita, sua e della sua famiglia, sulle carte. Gli anni Sessanta, Settanta, Ottanta e gli inizi degli anni Novanta furono - per Perugia - quelli del boom del gioco d‘azzardo. Le case da gioco, chiuse con le irruzioni della polizia e dei carabinieri, da una parte, riaprivano, nel volgere di pochi giorni, da un‘altra parte. Sotto forma di club, di associazioni culturali, di circoli ricreativi. Concincina, chemin de fer, baccarat, poker i giochi più frequenti. E bestia, l‘unico gioco che sia sopravvissuto e che ha il suo momento di gloria, nelle abitazioni private dei perugini, sotto le feste natalizie. I più maturi ricordano una bisca in via Bonazzi, poi in corso Vannucci, quindi la mitica "Sportiva" di via Mazzini. Qui negli anni Sessanta alcuni dirigenti del Perugia giocavano anche per racimolare i soldi per pagare i calciatori. E anche calciatori e allenatori (alcuni molto famosi in città) sedevano intorno al tavolo verde. Grande rumore nel capoluogo fece l‘irruzione - l‘8 dicembre del 1970 "per buona ricordanza", come si dice - in una sala di gioco al secondo piano del palazzo di fronte al municipio, in corso Vannucci: più di trenta giocatori sorpresi a puntare, con i mazzi di carte sul tavolo e i soldi ammucchiati in mezzo. Finirono tutti sotto processo: gli organizzatori (puniti più severamente) e i partecipanti. Venti anni più tardi, grosso modo, ancora più clamoroso il blitz della polizia nel "tempio" dell’alta borghesia perugina: l‘Accademia dei Filedoni. La squadra mobile (allora diretta da Alberto Speroni) sorprese ai tavoli un gran numero di persone, aristocratici e imprenditori, uomini e donne. Uno di loro, per cercare di non farsi prendere ebbe la prontezza di saltare nel giardino e nascondersi dietro una siepe di bosso. Non gli servì: fu scoperto. Le case di gioco scoperte migravano da un quartiere all’altro: chiusa quella di piazza Danti, ecco che una bisca sorgeva all‘Elce, poi in via dei Filosofi, poi a San Sisto, a Madonna Alta, in via Settevalli. A gestirle, quasi sempre, i soliti soggetti: il signor M. (che portava un enorme anello al dito), il signor A., il signor Q., i signori F. e P., amici da tra loro. Oltre ai giocatori in sala si muovevano i "finanziatori". Cioè signori che avevano possibilità di danaro o che comunque erano garantiti e che prestavano i soldi a strozzo al giocatore che in quel momento, preso dalla febbre del gioco, pur perdendo sperava di rifarsi nella mano successiva (la febbre del gioco: ricordate "il giocatore" di Dostojevski?). Ricorda un poliziotto:
"Le bische erano sempre chiuse da porte blindate e c‘erano, di guardia, nerboruti guardiaspalle dei tenutari. Una volta per fare irruzione in un locale da gioco, che si trovava in via della Pallotta, vicino al ristorante "Il gatto nero", staccammo l‘erogazione dell‘energia elettrica. I giocatori, per capire cosa fosse successo, uscirono, con le carte in mano e lasciando i soldi sul tavolo e noi potemmo eseguire l‘irruzione..."
Un‘altra volta, per entrare in un "circolo" di via Settevalli, i poliziotti salirono su un tetto e si calarono attraverso le finestre.
"Ogni volta che facevamo una irruzione i giocatori cercavano di fare gli gnorri - racconta un poliziotto - ricordo che più volte sorprendemmo il folignate F., che ripeteva sempre: "e‘ la prima volta che entro in una bisca e ho la sfortuna che voi mi ci beccate". Sempre la stessa frase..." Per far scattare le denunce era necessario cogliere i biscazzieri con le mani nel sacco: i mazzi di carte sul tavolo, i soldi sparsi delle puntate, i foglietti con le giocate. Per questo porte e finestre blindate erano una necessità: guadagnare pochi istanti permetteva di evitare la denuncia. Quando le forze dell‘ordine entravano trovavano infatti i giocatori impegnati in una innocua partita a briscola e tressette.... Un giocatore ricorda che un imprenditore, della zona dell‘eugubino-gualdese, nel volgere di pochi mesi, si rovinò completamente. "Aveva ereditato un capitale di due miliardi, agli inizi degli anni Ottanta e in un anno e mezzo lo dilapidò completamente. Finendo sul lastrico..."
Gli esposti, alla base dei blitz di polizia e carabinieri, arrivavano dalle mogli e dai figli dei giocatori più accaniti. Che speravano invano che il congiunto si ravvedesse. Non mancarono, negli anni, episodi di giocatori (anche professionisti stimati) che rovinati dal gioco, arrivarono al suicidio. Una visione romantica del gioco d‘azzardo, che ora non c‘è più. Almeno in quei termini
Elio Clero Bertoldi
Corriere dell'Umbria Giovedì 26 Agosto 2010

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